Clement Greenberg aveva ragione

di Alison Gates

 

Appena rientrata da dieci settimane passate a Roma e alla Biennale di Venezia, la redattrice della sezione artistica di Babel illustra perché il trattato del 1965 "Modernist Painting" (La pittura modernista) del critico d’arte, risultava estremamente accurato e spiega perché sulla pittura stanno crescendo margherite.

Alcuni artisti sembra abbiano preso il post-modernismo per garantito. Io appartengo a questi. Mi ritorna equo aver gettato via qualsiasi tipo di gerarchia e adottare la premessa che qualunque cosa può essere arte e che l’arte può essere qualsiasi cosa. Immaginatevi la sorpresa che ho avuto quando ho scoperto che esiste un ampio segmento di popolazione che, dopo per lo meno vent’anni di anarchia e della successiva sedimentazione in quell’era che definiamo Periodo Post-Modernista, è ancora in prima fila, o, fatto ancora più impressionante, si sporge in avanti a rifiutare il canone-infante che abbraccio con tanto calore. Un’incursione recente nella venerabile La Bienniele di Venezia lo scorso ottobre, insieme all’esperienza strana e nuova di vivere incredibilmente in stretta prossimità con i pittori che hanno lavorato per dieci settimane, mi ha portato a delle conclusioni nuove e sorprendenti, e a un ritorno - decisamente non prevedibile - al trattato di Clement Greenberg, dal titolo "Modernist Painting" (La pittura modernista).

Ho lottato contro Clement Greenberg, già dalla prima lettura – più di tredici anni fa - del suo libro, lo scritto classico assegnato ai laureandi in arte o in storia dell’arte che affrontano il Ventesimo Secolo. Lo lessi come studentessa di scrittura e mi sembrava (allora, e ancora oggi) che, benché Greenberg scrivesse di Modernismo, il suo stile critico personale fosse alquanto gotico. E’ denso, spesso, e lo affrontai come lessi La Lettera Scarlatta alle superiori: leggevo un paragrafo, cadevo in uno stato di stupore, mi risvegliavo; rileggevo il paragrafo, pensavo: "Quindi?", mi incoraggiavo con un discorso di incitamento sul fatto che possedevo un livello di intelligenza superiore alla media e un vocabolario ben fornito, rileggevo e infine continuavo sperando che qualsiasi cosa mi fosse sfuggita non sarebbe rientrata nella domanda dell’esame.

In tutto, per fini scolastici, ho dovuto affrontare "Modernist Painting" (La pittura modernista) ben quattro volte. E non ricordo con esattezza il numero di volte che ho letto il testo, ma di sicuro varie. Il trattato fu pubblicato per la prima volta nel 1965 e il punto focale verte nell’esaltazione della Pittura Modernista (in particolare la campitura colorata) che costituisce l’apice, il pinnacolo, l’omega possibile dell’arte. A meno che, naturalmente, non si parli di scultura, o forse di "artigianato" (ceramica, vetro, fibra, incisione del legno, fusione del metallo e simili) o altri "mezzi servili" (processi di stampa e fotografia) che sono più funzionali nell’esplicare un servizio alla pittura. Greenberg semplicemente non ha preso in considerazione questi mezzi se non per ravvisare coloro che lavorano nella tridimensionalità di esaminare meglio i successi conseguiti e l’uso delle proprietà specifiche alla propria forma artistica. (Ogni qualvolta rivaluto questo punto, non riesco a bloccare l’entrata nella mente dell’immagine di una famiglia che sceglie l’albero di Natale: E’ voluminoso ovunque? E’ simmetrico? Non ci sono parti spoglie o zone appiattite o chiazze marroni?)

Martin Puryear ha di recente installato un pezzo su commissione nel campus dell’Università di Washington a Seattle; l’artista si è ispirato a un modello aerodinamico che aveva visto. Ho avuto modo di esaminare il disegno e sulla superficie piatta assomigliava a un cucchiaio campione del "Baskin and Robbins 31 Flavors". Tanto poco tempo era passato dalla sua installazione, ancora doveva essere applicata la patina protettiva, che un vandalo vi ha posto la scritta: "naturale o arrostita al miele?" Sembra un arachide, ma, usando il modello di Greenberg come lo intendo io, è un esempio perfetto di una Scultura Modernista. In altre parole, se fosse un albero di Natale andrebbe bene per Martha Stewart. Sta a questo punto comprendere se è la migliore cosa che Puryear abbia mai realizzato: è il pinnacolo della sua carriera? E’ la migliore scultura mai fatta? Per l’amor di Martin, speriamo di no. E secondo me, no. Vi faccio visita a volte per riflettere [come ricerco la spaventosa statua barocca del Bernini, La Verità svelata (Truth), o la Tree-Hand (Mano-Albero) di Magdelena Abakanowicz collocata in prossimità degli alberi effettivamente cresciuti e invecchiati a Bellingham, Washington] che i materiali preziosi non sempre rendono pregiata l’arte, e perfino i migliori tra noi sono a volte troppo sedotti dalla propria idea per essere in grado di distinguere ciò che, in tutta semplicità, non funziona.

A lungo ho creduto questo, per ciò che concerne Greenberg e la sua Pittura Modernista. Piatta, ecco il punto di Greenberg. Piatta e rettangolare. Va avanti pagine e pagine a lodare le virtù del piatto e rettangolare. Come Frank Stella prima che iniziasse a esplodere le tele. I migliori amici di Greenberg rappresentavano il Panteon dei pittori modernisti. Andava letteralmente e figurativamente a letto con loro. Un gruppo di élite, e i gruppi di élite proprio per loro natura, portano alla riduzione della prospettiva, la rendono poco profonda, bidimensionale.

Abbastanza ironico, la ragazza di Greenberg era Helen Frankenthaler che aveva sbalordito il mondo dei pittori macchiando le tele non montate sui listelli con della pittura diluita. La sua arte ha un’intera gamma di diverse implicazioni se si parla di artisti che utilizzano la fibra, in quanto questi, sempre, macchiano il tessuto non montato. La tecnica non è affatto modernista, risale infatti ad uno dei processi più tradizionali nel trattamento dei tessuti e viene praticato in modi simili più o meno da tutte le culture. Uno dei problemi che assilla gli esperti delle fibre, è il mezzo: il tessuto, data la sua fragilità non è in grado di sostenere le forze ambientali contro le quali la pietra e l’acciaio mostrano per natura una maggiore resistenza, registrando, in conclusione, una minore attenzione storica per la mera ragione che non esiste un perdurare nel tempo. Questo fatto, insieme a centinaia di anni di sessismo (visto il collegamento dei processi della fibra alla vita domestica praticati di norma dalle donne) ha portato alla ghettizzazione della fibra.

Nel frattempo, ecco Helen e Clement al Cedar Bar in un doppio appuntamento con Jackson Pollock and Lee Krasner a parlare della pittura appiattita, dell’eliminazione dei punti focali e via dicendo. Ironicamente, non le viene riconosciuto neppure il suo avventurarsi nella pittura con campiture colorate, nel momento in cui i suoi amici Morris Louis e Kenneth Noland arrivano in città e iniziano a produrre la stessa cosa. Inoltre, lo stesso vale per tutti gli altri pezzi artistici in fibra fatti dalle donne del periodo, i lavori iniziali si stanno decomponendo. Le prime creazioni di Frankenthaler si stanno ora disintegrando, perché ha usato colori a base di olio con diluenti di trementina che nel tempo corrodono le tele non montate.

Per fortuna, a un certo punto, siamo alla metà del 20° secolo, vengono introdotti i colori acrilici e lei ha iniziato a farne uso. Ma la mia copia di L’Arte nel 19° e 20° Secolo di Jason (assicuro che è una vecchia copia) non fa alcuna menzione a Helen Frankenthaler a pagina 401 dove ho trovato la seguente citazione: "L’affidamento al colore come mezzo primario con la successiva soppressione degli elementi, si fa maggiormente evidente nel lavoro di Morris Louis e Kenneth Noland. I due pittori hanno utilizzato la vasta gamma delle sfumature brillanti dei nuovi colori di plastica ad acqua che permettono loro di impregnare le tele non montate, proprio come Pollock aveva macchiato le sue in bianco e nero nel 1950-1951, hanno mantenuto i colori alla piena saturazione creando dei nuovi effetti tattili e visivi". Ebbene sì, Pollock ha macchiato le tele di bianco e nero per un anno e ne è stato riconosciuto. Frankenthaler ha costruito su quest’idea l’intera carriera della sua vita e non ce l’ha fatta ad entrare nei grandi tomi che tutti noi comperiamo per l’approfondimento dello studio dell’arte. Comunque, non essendo una storica dell’arte, né una Guerilla Girl (Ragazza da guerilla), ritorno al punto di partenza, sarebbe a dire, Clement Greenberg aveva ragione!

Sono arrivata alla suddetta conclusione all’incirca al tempo della Biennale di Venezia (Venice Bienniale), benché già da prima nutrivo dei sospetti. Non avevo, comunque, intenzione di riconoscere Greenberg, che a questo punto era arrivato a rappresentare tutto ciò che odiavo nel campo dell’arte in America. Un pittore, amico mio, che era con me a Venezia alla Biennale, ha sottolineato: "Sono sorpreso di non trovare più pittura". Io, invece, non lo sono. La pittura è prossima alla morte. Nel mio libro, è giunto il tempo di evolversi o di morire.

Ci siamo recati a visitare pure un’enorme retrospettiva di Anselm Kiefer (Anslem Kiefer retrospective) aperta in concomitanza alla Biennale. Se Greenberg fosse ancora tra noi, vivo e guizzante, non sono assolutamente sicura se ci sarebbe dato sapere chi è Anselm Kiefer (e, potrei aggiungere, la simpatica coppia texana - che ha accreditato i suoi lavori sui libri agli antichi veneziani, addebitando in modo creativo le pagine in tela da sacchi imbevute di catrame a un tempo in cui la carta non esisteva, tanto distante da renderle nere per l’avanzare degli anni – probabilmente ancora non sa chi Anselm Kiefer possa essere… un qualcuno forse imparentato al tipo che era in M*A*S*H*?). Il lavoro di Kiefer era molto lontano dalla tela. Profondo circa 30cm ed enorme, la sensazione che provocava nelle sale più piccole era quella di un’installazione. Faceva riferimento alla scultura, all’architettura, agli antichi artefatti, alla muratura in pietra, all’imballaggio del fieno e alle traverse dei binari. I suoi dipinti erano montaggi fotografici e pezzi di detriti colonici, non vi era un momento piatto nell’intera retrospettiva. E’ così che siamo arrivati di nuovo alla domanda: Dove finisce la pittura e inizia la scultura?

Come americani, dobbiamo valutare l’artista che è stato proposto alla Biennale di Venezia, Robert Colescott… se riusciamo a trovarlo; i pannelli con il testo di presentazione nel Padiglione Americano erano così pregni di pomposità e di auto-riconoscimento per il fatto che, per la prima volta, il comitato ha scelto una "persona di colore" per rappresentare gli Stati Uniti che in effetti è stato difficile trovare il lavoro artistico che noi, in qualità di americani a Venezia, cercavamo per instaurare un collegamento patriottico. Non vi è stato modo. Raschiate via il testo dai dipinti di Colescott e questi permangono drammatici; ma, in America, terra multimediale, vi è ancora confusione tra le differenze e le esperienze che sono meglio espresse a livello verbale e ciò che invece risulta più espressivo a livello visivo. Devo ammettere in qualità di artista di usare nel mio lavoro e con grande regolarità le parole. Devo pure sottolineare che provengo dal mondo pubblicitario. Non mi proclamo una pittrice, comunque. Ma ammetto l’eredità ricevuta nel regno del campione a punto in croce e della trapunta per il lutto. (Forse pure Colescott lo ammette, non lo so, ma all’esposizione non vi era posto per una sola dichiarazione dell’artista che mi ricordo di avere visto, vi fosse stata di certo l’avrei letta). La sua pittura non era neppure piatta, era figurativa… e c’erano tutte quelle parole sulle tele. Mi sembra che la domanda adatta a questo punto sia: "Dove finisce la pittura e inizia la pubblicità (o la propaganda, o il fumetto o la sceneggiatura)?"

Affermo che la pittura è morta, lo constato in quanto credo che un qualche altro tipo di arte, non ancora insegnato a Yale, sta nascendo dalle sue ceneri. Se stabilisco la morte della pittura è perché sono arrivata alla conclusione che la definizione di Greenberg sulla pittura modernista è estremamente corretta e che questo tipo di processo piatto, non figurativo, attaccato alla bi-dimensionalità di cui lui parla, ne ha costituito in effetti la fine vivente. La ragione per cui mi sbilancio a sostenere questo è perché tuttora in America e altrove, viene insegnato alle giovani menti che la pittura è la più alta di tutte le forme artistiche, invece non lo è. Siamo nell’era Post-Modernista. Si suppone di avere superato la gerarchia che abbiamo capito che è dannosa alle donne e alla gente di colore e a coloro che lavorano nelle varie istituzioni e agli uomini bianchi che non sono abbastanza retribuiti e ai bambini di talento che vivono nei quartieri sbagliati. E non è solo una questione di correttezza politica. Risulta anche seducente perché l’omogeneità è abbastanza noiosa e si adatta a così poche persone che il fondamento è stato ridotto a niente. La pittura sta cadendo e con sé trascina la parte restante di noi, ma verso dove saremo tutti attratti? Nel passato, naturalmente.

 

Alison Gates può essere raggiunta a aligates@hotmail.com